Gabriele Orio aveva 38 anni nel 2018 quando, a causa di una fatalità, perse la vita.
La sua famiglia, che donò i suoi organi, oggi lo ricorda con un progetto fotografico per spiegare a tutti, con attenzione particolare ai più giovani, l’importanza di un Sì.
Il Si alla donazione degli organi ha un potere enorme, la storia di Gabriele lo insegna: “aveva una vita ne ha donate 7“. A tre anni dalla sua scomparsa, la famiglia lo ricorda con il progetto fotografico “Un Dono di Vita” per spiegare a tutti, con attenzione particolare ai più giovani, l’importanza di un Sì.
«Il progetto è la metafora di come alcune malattie sono all’apparenza delle montagne impossibili da scalare, prive di cure risolutive, ma che con un numero crescente di consensi, ripongono nella donazione di organi l’unica possibilità concreta di guarigione, l’unica speranza per superare le difficoltà, raggiungere la cima della montagna e ritornare alla base intesa come il ritorno ad una vita normale. I soggetti sono giovani ragazzini perchè crediamo nelle nuove generazioni per promuovere i cambiamenti culturali. Angeli e scalatori particolari, con tute bianche, ali, elmetti, corde che simboleggiano il legame indissolubile che si crea tra chi dona e chi riceve», così la sorella Ilaria Orio, ideatrice del progetto.
AIDO, con la Presidente Flavia Petrin, si unisce al ricordo di Gabriele con profonda gratitudine per questa iniziativa di promozione della cultura del dono: un dono speciale, che non costa nulla, ma che ha un valore inestimabile. Quello della vita.
LA TESTIMONIANZA
«Così abbiamo deciso e ridato un futuro a sette persone in attesa».
Gabriele Orio aveva 38 anni nel 2018 quando, a causa di una fatalità, perse la vita. Ma non si era mai espresso sulla donazione. Lo ha fatto la sua famiglia, senza esitazioni
Sette organi donati. Sette vite salvate. Sette famiglie che, grazie a un gesto di puro altruismo, tornano a sperare e a riannodare i fili di relazioni, amicizie e affetti logorati da malattie ormai incurabili. Gabriele Orio aveva 38 anni nel febbraio del 2018 quando, a causa di una fatalità, ebbe un incidente automobilistico. Il donatore dei sette organi è lui. «La vita di Gabriele si è giocata in pochi secondi. Prima di uscire, mia mamma gli aveva offerto un caffè. Lui lo ha rifiutato. Probabilmente, se quel caffè lo avesse bevuto non avrebbe subito l’incidente. Invece i casi della vita hanno voluto che lui in quel secondo fosse proprio lì», racconta la sorella Ilaria, 45 anni, ingegnere gestionale. Operaio carpentiere metallico, Gabriele lavorava in Svizzera. Uno dei tanti frontalieri che ogni mattina si spostano dal piccolo paese in Piemonte dove viveva.
In condizioni disperate, la corsa in ospedale
Le sue condizioni sono apparse subito disperate. È stato trasportato in elicottero al Cto di Torino. Per due giorni i medici della rianimazione hanno tentato di strapparlo alla morte, con ogni mezzo. «Ricordo ancora quella stanzetta tre metri per due nella quale abbiamo trascorso momenti d’attesa infiniti. Siamo poi stati raggiunti dai medici e hanno iniziato a spiegarci con parole semplici ma molto chiare la morte cerebrale a cui mio fratello andava incontro». Per la famiglia – mamma, papà, Ilaria e Giuliano, il fratello più piccolo – si è aperto un dramma nel dramma. «I medici sono stati molto sensibili, umani e io ho un ricordo indelebile di quell’istante. È stata comunque una doccia fredda. Le famose sei ore di osservazione che servono a certificare l’avvenuta morte cerebrale con metodi scrupolosi, scientifici, sembrano eterne ma volano. Speri che possano durare all’infinito. Poi arriva il verdetto e ti senti crollare. Perché in quel momento realizzi che non c’è più speranza. E quindi quel “volete donare gli organi di Gabriele?” è suonato un po’ crudele in quel momento. Realizzi subito però che quella domanda è importantissima e ha bisogno di un tempo di risposta rapido. È un pugno nello stomaco a cui non ti puoi sottrarre: sì o no».
Gabriele non si era espresso sulla donazione, è toccato alla famiglia
Domanda obbligata, dal momento che Gabriele da vivo non aveva espresso la sua volontà (si veda la scheda a fianco). Così è toccato alla famiglia decidere. «Abbiamo pensato a che cosa Gabriele avrebbe davvero voluto rispondere, se quella domanda fosse stata rivolta a lui direttamente, in un’epoca precedente. E conoscendolo così bene, come una persona generosa, sempre attenta anche alle esigenze degli altri, per noi è stato semplice e spontaneo rispondere di sì. All’unanimità. Proprio come se lo avesse pronunciato lui», spiega Ilaria. «Ci siamo subito detti una cosa: se sono tutti sì , è sì . Ma se c’è un no, quello prevale. Per cercare di dare libertà a tutti e dare consapevolezza a questo gesto di primaria importanza. Quindi è meglio un no, che un sì con strascichi. Però mia mamma e mio papà si sono fidati molto di noi più giovani . Hanno chiesto a noi: voi che avete la stessa età di Gabriele che cosa fareste? Proprio perché le informazioni sono state chiare abbiamo capito che morte cerebrale non è coma, non è stato vegetativo. È una situazione di non ritorno e quindi a quel punto è stato un sì per tutti. Mia mamma che era presente si è presa la responsabilità di prendere in mano la penna e di firmare il consenso. Tuttora è felicissima di averlo fatto», aggiunge.
La macchina organizzativa e il lavoro frenetico sulle liste d’attesa
La famiglia è stata accanto a Gabriele fino all’ultimo:«Se ricordo bene, il conteggio delle 6 ore per l’accertamento di morte cerebrale è partito alle 14 e si è concluso alle 20. Ma noi siamo stati ancora con Gabriele fino alla 1 di notte. Proprio nel momento in cui poi ha lasciato la Rianimazione per andare in sala operatoria. Quando penso a quei momenti, penso di aver vissuto qualcosa di sensazionale perché è partita una macchina organizzativa che non sapevo nemmeno potesse esistere. Davvero una complessa attività multidisciplinare che coinvolge tante persone: anestesisti, chirurghi, infermieri, i trasporti, la logistica. Mi è rimasto impresso vedere il lavoro frenetico di tante persone alla ricerca delle compatibilità nelle liste d’attesa, una lotta contro il tempo per coordinare il lavoro di tante persone che hanno un unico obiettivo: di far proseguire la vita da una morte ineludibile».
Ilsostegno psicologico e la lettera di ringraziamento del Centro trapianti
La notizia degli organi che sarebbero stati prelevati non è arrivata subito. «Nella fase in cui partiva la ricerca di compatibilità eravamo con Gabriele. Gli abbiamo tenuto la mano e, quando ci hanno detto di salutarlo, Giuliano ha preso per sé una ciocca di capelli. E poi Gabriele è andato. Allora ci hanno lasciati liberi di tornare a casa. Ci hanno detto che avremmo ricevuto una lettera dal Centro regionale trapianti e così infatti è avvenuto a distanza di qualche tempo. La mamma ha ricevuto una lettera di ringraziamento e riportava i numeri di telefono della Psicologia medica per i trapianti che non abbiamo chiamato subito. A quel punto ci siamo presi il tempo per elaborare e capire cosa ci fosse successo. Accade tutto così, senza la consapevolezza piena del dopo. Abbiamo preferito non rispondere subito e essere più tranquilli e affrontare quella telefonata più avanti. Ed è stato così». «Nel rispetto dell’anonimato, nel senso che c’è la legge che tutela sia donatori sia ricevente, poi ci hanno detto quali organi sono stati prelevati. Ci hanno detto che Gabriele aveva donato tanto, essendo giovane e sano: il cuore, i polmoni, i reni , il fegato, le cornee e tanti tessuti».
Conoscere chi ha ricevuto le donazioni?
Vi è venuta mai voglia di conoscere le persone a cui sono stati donati gli organi? «Sì, la voglia c’è ma poi capisci che non sai chi c’è dall’altra parte e quindi ci sono degli aspetti psicologici secondo me molto delicati e che non puoi prevedere. Non lo so. Anche io a volte mi chiedo se la legge attuale che garantisce l’anonimato sia giusta o sbagliata, tanti la vorrebbero modificare ma credo che sia giusto rimanga così. Credo che ci debba essere il desiderio reciproco. E poi forse il percorso di una mediazione può aiutare. È chiaro che dare un volto alle persone che hanno ricevuto concretizza e fa capire ancora meglio di quanto sia importante questa scelta. A me ha aiutato tanto conoscere altri trapiantati. Vivo in un paese piccolo , di circa duemila abitanti e conosco due trapiantati di rene, uno di fegato e una ragazza che ha ricevuto una cornea. Nel paese dove viveva Gabriele conosco una ragazza che ha ricevuto un rene e un signore che ha ricevuto un fegato. Probabilmente vedere queste persone che conducono una vita normale è un po’ come dare un volto a quelle che hanno ricevuto gli organi di mio fratello».
La vita di sette persone è cambiata grazie a Gabriele e alla sua famiglia
La vita di sette persone è cambiata. Ma anche quella della famiglia di Gabriele. Ilaria si impegna nella sensibilizzazione sul tema della donazione di organi. «Mi hanno inviato a parlare nelle scuole e mi sono resa conto che i ragazzi sono delle spugne, gli vanno spiegate le cose. L’ho visto anche con i miei figli, che all’epoca dell’incidente di mio fratello avevano 7 e 10 anni. Ai bambini è facile spiegare le cose, molto più che agli adulti e quindi credo sia importante rivolgersi a loro perché capiscono in maniera naturale. È importante farlo con le parole giuste e nasce la voglia di comunicare». Intorno a questa idea è anche partito il progetto «Un dono di vita», una campagna fotografica per sensibilizzare alla donazione (in collaborazione con il fotografo Federico Leone, il grafico Francesco Giarrusso e la stylist Ornella Rota che hanno prestato la propria opera gratuitamente). «Abbiamo pensato a immagini piacevoli che possano raccontare e scelto la metafora della malattia vista come una montagna, un ostacolo. Così abbiamo fatto delle foto, tantissime, le abbiamo selezionate e completate graficamente: un percorso dove i bambini sono impegnati a scalare una montagna, intesa come una malattia da superare. E ci riescono solo con la solidarietà reciproca . I bimbi si passano la corda, si sostengono l’uno con l’altro. Vogliamo far capire che le avversità della montagna, si superano solo con le cordate non con le salite in solitaria. Spero che questi scatti possano passare il messaggio in maniera soft e colpire in modo tale da suscitare un po’ di curiosità e voglia di fare domande e ricevere delle risposte magari prima di andare a rinnovare la carta di identità e non magari in momenti difficili della vita». Il progetto è piaciuto a Flavia Petrin, presidente dell’Associazione italiana per la donazione di organi, tessuti e cellule. Sarà ospitato sul sito di Aido e sarà messo a disposizione delle scuole interessate. A partire dal primo febbraio, per ricordare il semplice sì alla donazione di Gabriele che ha permesso la rinascita di sette persone.
La felicità di spalancare una porta chiusa: donare è un dono reciproco
Il resto è storia di oggi. Nessun rimpianto, anzi. «Ho realizzato che donare è reciproco: è un dono per chi riceve ma anche per chi accetta di donare. A noi ha aiutato tantissimo. Pensavo di dover raccogliere mia mamma con il cucchiaino, dopo la perdita di Gabriele. Chiaramente il suo dolore è immenso, ma quando pensa a quanto Gabriele ha lasciato, ne riceve una consolazione enorme. Quindi donare fa bene a chi riceve ma anche a chi dona: dà un senso di dignità a una morte assurda, valorizza un momento drammatico, ti fa elaborare un lutto con più serenità. Per contro, per chi riceve è tutto. Siamo tutti interconnessi, tutti. Il comportamento del singolo si ripercuote su una collettività e una società. La vita è imprevedibile e noi lo abbiamo capito sulla nostra pelle: il tempo di un caffè e una vita è volata via. La malattia può colpire tutti. Tutti in futuro potremmo essere dei potenziali riceventi quindi viene naturale pensare che dovremmo essere tutti anche dei potenziali donatori. Quindi perché dire di no? é un sì che fa bene a tutti. Ho dei bambini e dico: chi lo sa? Auguro loro salute per tutta la vita, ma se non dovesse essere così? Se fossi io dall’altra parte ad avere bisogno di un aiuto? In quel momento è toccato a noi e in quel momento è stato giusto dire di sì. Voglio citare una frase dello scrittore Luis Sepulveda, che mi piace tantissimo: una porta chiusa non serve a niente perché la tristezza non può uscire e la gioia non può entrare. E noi siamo felici di averla spalancata quella porta».
(Ruggiero Corcella, Corriere della Sera)
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